sabato 21 novembre 2009

L'enigma di Kaspar Hauser

Il teatro



Da sempre l’umanita’ , a vari livelli , ha vissuto situazioni che possiamo definire “ai limiti della sopravvivenza” ; si pensi , ancora oggi , a certi documentari che descrivono la vita di sacche estese di popolazioni nel terzo mondo. Soltanto alcuni decenni fa , ed ancora oggi in talune localita’ , anche in Italia, permangono isole di arretratezza sociale. In tali ambiti l’individuo ed il gruppo ha sempre cercato evidentemente il cambiamento , incorrendo spesso in mille difficolta’ e resistenze. Una delle forme privilegiate di tali tentativi è stata sempre il teatro , inteso anche in chiave terapeutica (basti pensare al fenomeno del tarantismo nel Salento) , realizzato attraverso forme di drammatizzazione coreutico-musicale tesa a rappresentare le problematiche con finalita’ di condivisione e di superamento. Anche il teatro spettacolare non sfugge al rito pseudoterapico , generalmente mettendo in scena ansie ed angoscie , emarginazioni e vere e proprie tragedie che trovano nel rito collettivo una forma di espressione , base essenziale per ogni ipotesi di soluzione .

















Il teatro di strada




In riferimento alle tecniche teatrali storicamente piu’ diffuse ci sembra doveroso far riferimento ad alcune in particolari :

in considerazione delle priorita’ quotidiane legate alle essenziali attivita’ metropolitane , il modo di far teatro scelto dagli operatori in oggetto si è veicolato sempre di piu’ ad una sorta di teatro di strada , tipico delle compagnie itineranti medioevali.

Accanto a questo riferimento rilevante è apparso l’elemento improvvisatorio , tipico del Living Theatre di Beck , del Teatro della spontaneità di Moreno , Odin Theatre .






La valenza autoformativa




Nell’attivita’ con adulti gravissimi , come ripetutamente abbiamo rilevato , difficilmente si parla di oggettivi miglioramenti. Conviene generalmente far riferimento a variazioni nel campo delle atrofie da disuso che spesso affliggono i nostri ospiti ; oltre alle variazioni toniche , emotive , comportamentali e generali , attraverso il nostro lavoro siamo riusciti parzialmente ad impostare spezzoni di codici comunicativi che sono tali nella misura in cui vengono fatti propri da tutto l’istituto ed in altre realtà riabilitative. . Non si guardi pertanto a questo lavoro come ad un lavoro lineare che cresce e si evolve in positivo senza soluzioni di continuita’.Ci si limiti a valutarne le potenzialita’ sulla base dei piccoli successi quotidiani ottenuti che abbiamo verificato negli anni , spesso seguiti da periodi di insuccessi.

Ad evidenti aperture comunicative e relazionali possiamo associare la piccola grande conquista che tutti insieme abbiamo realizzato nelle minime significative modificazioni del reparto rese possibili grazie ad un modo nuovo di osservare e vivere gli ospiti anche partendo dal mettere un po’ in crisi la nostra impostazione professionale tradizionale ed il nostro modo di porci di fronte alla disablità grave.

Una persona con un svantaggio grave è seriamente candidata a restare tale per tutta la vita e i nostri piccoli sforzi stanno cercando di conquistare nella relazione riabilitativa piccoli traguardi per affrontare il mondo; è nostra convinzione che anche per il grave è possibile costruire la mentalità giusta per superare i problemi quotidiani disponendo di metodologie , volontà e fiducia in se stessi e negli altri. Abbiamo cercato e cerchiamo tutti insieme di formarci ad una gestione positiva e collettiva dei problemi , dei conflitti e degli ostacoli.







L’esperienza




Questa esperienza di “teatro di reparto” nasce da un gruppo di operatori dell’Opera Don Guanella di Roma che operano con disabili adulti gravi istituzionalizzati. Fin dall’inizio l’obiettivo (per quanto riguarda gli aspetti formativi) non era di “divertirsi” a fare teatro , ma di capirne il significato ed affrontare i meccanismi interni. Più tardi si è lentamente sviluppato un dibattito interno progressivo che gradualmente ha approfondito i vari aspetti della rappresentazione: emozioni , ritmi , sequenze , espressione verbale e non verbale , luci , colonna sonora , coreografia , scenografia, etc.

Dopo avere oscillato tra varie scelte il gruppo ha scelto la strada difficile della stesura collettiva di un “copione verbale e non verbale”: un impegno intellettuale maggiore , una sfida più netta verso l’esterno , un salto qualitativo rischioso.

Il primo elemento metodologico individuato è stato constatare che la proposta di rappresentazione non deve essere infantile , pur viaggiando operativamente su parametri materno-infantili. In concreto significa che proporre agli operatori di rappresentare “i tre porcellini” o “il gattopardo” di Tomasi da Lampedusa è certamente una questione che (scegliendo la seconda ipotesi) può motivare di più i caregiver non costringendoli ad una esposizione materna che potrebbe metterli inizialmente in difficoltà. Nella nostra esperienza abbiamo verificato che sia la fiaba infantile che l’opera d’avanguardia teatrale contengono le sequenze emotive essenziali per impostare la rappresentazione. Abbiamo quindi ritenuto importante accogliere la proposta di “alto livello culturale” , di partiture e copioni odierni ed attuali , atti ad interessare gli operatori e motivarli.

La difficoltà maggiore però è stata la gestione del tempo. Due ore alla settimana non bastavano e spesso , a causa di impegni quotidiani curriculari , non si riusciva a fare neanche quelle. Si e’ andati avanti lo stesso , dividendoci i compiti e facendo anche “riunioni” parziali.

Individuazione del tema :- “il rapporto tra il disabile grave e la comunità” , non solo per quanto riguarda l’isolamento oggettivo dovuto alla patologia , ma anche per i suoi aspetti “sociali” e culturali.-

E’ stato il musicoterapista ad incaricarsi di far circolare una storia da raccontare , che pensò di individuare nella trama del film di Herzog “L’enigma di Kaspar Hauser”.

Si è pensato subito istintivamente ad un teatro informale , non verbale , con punte anche comico-grottesche , capace di far riflettere provocando positivamente il pubblico. Sono nate discussioni tra una terapia e l’altra , un bagno ed un pranzo , una pausa in infermeria ed un incontro in ascensore , incontri anche sterili e noiosi , in cui si accumulavano e buttavano idee a getto continuo. Infine siamo arrivati all’idea di un filo conduttore che legasse diversi quadri sulla storia vera e presunta di Kaspar Hauser (che gradualmente diveniva la storia di un nostro ospite). Lo spettacolo non e’ stato affatto scritto e poi recitato ; una volta stabilito un vaghissimo canovaccio , ci abbiamo lavorato sopra pr costruire le scene , i personaggi etc. In sostanza si voleva dare un “messaggio” , ma senza enfasi, semplice .Al di la’ del contenuto il grosso dell’impegno e’ stato pratico.Dopo una discussione iniziale sul significato di una scena , ci si metteva al lavoro con accanto i nostri ospiti , i quali vivevano con noi i sudori , i nervosismi , le eccitazioni , le depressioni del percorso.

Ognuno era chiamato ad interpretare quel personaggio , in piccoli gruppi avvenivano improvvisazioni (scelta piu’ che metodica obbligata) su quella scena , alcuni facevano il pubblico , altri i suoni , altri pensavano alla coreografia dando la merenda ad un ragazzo. Nel “non detto” si cercava di non perder mai di vista quello che è lo spettacolo teatrale: sarebbe stato un errore concentrarsi sulla stoia di Kaspar Hauser , perdendo di vista il gusto del ritmo , del gioco , del divertimento , delle emozioni , le cose che potevamo condividere con i nostri ospiti.

Un altro momento di crescita comune autoformativa è stato la presa di coscienza di non voler diventare un “gruppo teatrale” e di non puntare a fare uno spettacolo perfetto; lo spettacolo si trasforma , si reinventa ogni volta.

Il vero “successo” e’ stato quello di essere riusciti a trasmettere l’emozione positiva di rappresentare un evento amaro e insieme la speranza del cambiamento, mantenendo sempre visibile il fatto che in scena non ci sono attori ma ragazzi disabili gravi ed operatori. Il pubblico e’ stato stimolato ad usare la sua fantasia e ad interagire con un contesto teatrale originale a tal punto da far rappresentare ai disabili gravi opere articolate e complesse , tali da comunicare la sensazione che si sta vivendo teatro e non attivita’ riabilitative curriculari. Il presente testo assolve il compito solo di un parziale resoconto , essendo stato il vissuto denso di emozioni .










Il percorso operativo




Il contesto generale finale e’ stato quello della Chiesa Del Seminario Minore della Casa S.Giuseppe Opera Don Guanella di Roma ; lì è avvenuta la rappesentazione finale , nel giugno 2006.Il gruppo di operatori è quello del Repartino 2 , gruppo “Risvegli”. “L’enigna di Kaspar Hauser” prende spunto da una storia realmente accaduta a Norimberga : l’abbandono di un disabile grave nella piazza della cittadina, ed i suoi risvolti sociali ed emotivi.

Riassumiamo qui schematicamente le tappe dell’attivita’:




-Proposta del musicoterapista




-Visione del film di Herzog e commento-dibattito




-Estrapolazione delle emozioni maggiormente percepite




-Elaborazione di sequenze sceniche dopo ampia disamina relativa alla fruibilita’ da parte degli ospiti




-Proposta di colonna sonora da parte di un operatore




-Proposta di danze ed elaborazione dei movimenti e dei coinvolgimenti degli ospiti




-Composizione di ballate-commento da parte del musicoterapista




-Definizione dei ruoli di cantore e narratore




-Individuazioni di poesie e testi di prosa per il narratore e prove di interpretazione




-Coinvolgimento di altre figure professionali del Centro (terapisti ,assistenti socio-sanitari, etc.) per i ruoli di sostegno




-Prove teatrali in reparto ed in Chiesa




-Rappresentazione finale







Lo spettacolo continua




I nostri ospiti sono uniti da una assoluta originalità e particolarità dei tentativi di comunicazione , che in taluni casi porta l’osservatore superficiale a definirli “soggetti con gravi problemi di comunicazione”. Nel gruppo tali “difficolta” si amplificano ed i processi di istituzionalizzazione rendono tali persone spesso chiuse in se stesse al punto da produrre a volte comportamenti stereotipati sul tipo di quelli generalmente definiti autistici.

Nel piccolo gruppo e nell’incontro individuale , al contrario , è possibile l’instaurarsi di livelli di comunicazione significativi spesso al di sopra delle più ottimistiche aspettative , ed ancora di più nel contesto di drammatizzazione descritto.

Ecco che improvvismente si aprono alcune finestre dell’attenzione , i “risvegli” , si odono parole , si scherza , si gioca , si suona , si accetta , si rifiuta.

Durante la recita si abbandonano stereotipie , si è capaci di lunghi silenzi , si è tristi insieme agli altri , allegri , si reagisce con gli altri alle diverse musiche.

Ecco che la musica , ad esempio , non è più funzionale (quella di sottofondo) o acontestuale (come spesso quella della televisione) , ma una musica –emozione , che ci aiuta a comprendere che stiamo vivendo un sentimento , uno stato d’animo preciso; cosi’ la musica ci aiuta a categorizzare le emozioni , a ricordarle , a fissarle nel nostro “alfabeto emotivo”.

Così come la figura materna “fa teatro” , rappresenta il mondo al bimbo attraverso le filastrocche e le fiabe , cosi’ gli operatori codificano e classificano le emozioni , le cantano , le disegnano , le danzano , le fissano. Il giorno dopo quella emozione sarà ricordata e fissata sempre di più in reparto attraverso una canzone , una foto , un ricordo , un passo di danza.







Considerazioni conclusive




Gradualmente , durante questa attivita’, gli operatori prendono coraggio ed “entrano in scena” coinvolgendo la propria persona , non solo professionale , la propria affettivita’ , emozioni , sentimenti. Conseguentemente il clima di reparto se ne avvale con positive ricadute. Essi vivono una “avventura teatrale speciale” con i pazienti , ed accresce il loro bagaglio comunicativo . Nel corridoio , dopo la rappresentazione , si sente una strana euforia: si distribuiscono sorrisi ed abbracci , ci si comporta come quando si conquista una vetta alpina. Qualcosa è cambiato , negli ospiti , in noi , che non sappiamo dire ma che sappiamo sentire.

Emerge la necessità di prevedere la realizzazione di una sorta di “dizionario non verbale” per l’operatore , accanto ad una “carta d’identità non verbale” di ogni ospite.

Il lavoro , consapevoli del contenuto ipercodificato ed ipersimbolico di ogni rappresentazione drammatica , al fine di non proporre un impegno troppo sofisticato per i soggetti gravi , ha scelto di individuare segmenti comportamentali , emotivi minimi.

Gli operatori hanno potuto vivere una intensa esperienza ed hanno potuto affinare le capacita’ di:

-concordare le linee di massima dell’interpretazione delle osservazioni;

-prevedere finalita’ ed obiettivi dell’osservazione;

-prevedere la gestione delle dinamiche intergruppali.










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